LE "RADIOSE GIORNATE" DELLA
PRIMAVERA DEL '45
IL MARTIROLOGIO
Frà Ginepro da Pompeiana
Luciana Minardi di Imola aveva sedici anni. Nessuno
avrebbe immaginato in questa ausiliaria, dal carattere mite e dall'occhio
puro, tanta audacia e forza di volontà. Fuggita dagli uffici accoglienti
delle retrovie, aveva raggiunto sul Senio il battaglione Colleoni. Mentre
tuonava il cannone ella cuciva e cucinava, puliva le stanze e sbrigava
i lavori d'ufficio dove era addetta al telefono e al cifrario. Sgobbava
tutto il giorno senza larnentarsi; sul labbro il sorriso della sua anima
sempre fanciulla.
Al momento della ritirata, la bimba si trasformò
in eroina, la piccola divenne grande: a lei si appoggiavano i feriti, i
ritardatari, gli avviliti che tremavano di sfiducia e paura. Il suo piccolo
cuore era colmo di amore fraterno; si prosternava ai piedi dei marò
colpiti dal piombo nemico. L’esile corpo, che aveva del giglio, si piegava
sul capo a baciare ì capelli del ferito donde veniva un filo dì
sangue.
Bisbigliava una parola dolce e il soldato morente
apriva gli occhi a sorridere a questa carezza-benedizione, a questo sussurro
che aveva la voce dell’usignolo, e a questa carezza che aveva la levità
dell'ala d'angelo.
Fu tale il suo contegno che il comandante del battaglione
le affidò il gagliardetto da portare in salvo. Se lo strinse al
seno così appassionatamente che divenne tessuto del suo essere più
intimo. Come le membra hanno un vestito esterno, così lo spirito
ha una veste interiore. Lo spirito di Luciana era fasciato da questo gagliardetto.
Eppure se ne seppe privare a tempo, prima che mano nemica glielo strappasse.
Catturata dagli inglesi sulle sponde del Po gettò nel fiume la preziosa
insegna. Un caduto che passava, trascinato dalle acque la raccolse. - Ce
lo restituirà un giorno incontaminato - sospirò Luciana,
mandando con la mano un bacio al gagliardetto che scompariva col milite
ignoto.
Rilasciata dopo breve interrogatorio, la fanciulla
di Romagna raggiunse i suoi familiari che erano sfollati a Cologna Veneta
con altre famiglie imolesi. Era il mese di maggio e le laudi della Vergine
entravano anche nella baracca dei poveri sfollati. Le mamme e i bimbi raccoglievano
fiori che offrivano con le orazioni e i canti alla Consolatrice. Dai cuori,
con le preghiere, sgorgavano le speranze. Ma una sera i partigiani vennero
a prelevare una decina di queste donne coi bambini. Si trattava di un interrogatorio
dal quale sarebbero tornate dopo pochi minuti: stessero tranquille, i partigiani,
alle donne, non torcevano un capello. -Lasciate pure i ceri accesi alla
Madonna, chè tornerete subito a continuare le vostre orazioni-.
I veronesi sono molto religiosi e ad essi si può
credere. Le donne andarono fiduciose e non tornarono più. I partigiani
trascinarono le vittime sull'argine del torrente Guà e, dopo innominabili
oltraggi, le finirono. Quella sera gli uccelli non si levarono dai campi
a intessere trame di frenesia, nei cieli. Gli uccelli volavano spauriti
rasenti terra, come quando s'addensa il temporale che fa paura. Che cosa
può far paura più della vendetta dell'uomo? Quale temporale
può devastare più la terra dell'odio umano? I ceri si erano
consumati davanti all'immagine, rimasta al buio, senza lumi e senza canti.
Alla fanciulla di Romagna strapparono le vesti,
con zampate e morsicate da felino. Il suo corpo virgineo, esposto al veleno
e alla bava di una compagnia di scellerati, rabbrividì e si coperse.
Luciana sentì che le ferite non bastavano a difenderla dall'oltraggio
e si coperse di rossore: come il fiore si ammanta di rugiada. L’adolescente
era più candida della neve, con quelle braccia piene di lividure;
era più bella del sole di maggio, con quelle lacrime e quelle ferite.
Dopo tanta bellezza non ci poteva essere che la morte. Quando si piegò
alla prima raffica cadde in ginocchio invocando la mamma. - Adesso chiama
la mamma - urlò uno dei carnefici. - Ma è troppo tardi: non
ti resta che rinnegare le tue idee maledette.
Vicino a lei cadde Iride Baldini, col figlio sedicenne
Nino. La donna aveva il petto denudato: il figlio morente gli appoggiò
il capo. Sul seno materno danzavano, invece dei sogni irrequieti dell'adolescenza
gioiosa, i sospiri di una dolce agonia: più lieve e angelica del
tocco di un neonato che incomincia a poppare. Iride era morta e Nino moriva;
ma in quel gesto di dolce abbandono sul seno materno sembrava che succhiasse
la vita.
Marcella Batacchi di Firenze aveva diciotto anni,
ma ne dimostrava quindici, tanto era piccola e snella. Non volle vedere
l'ingresso trionfale degli anglo-americani nella sua città.
Quando questi si avvicinarono, se ne allontanò
con l'ultima ridotta dei disperati. Fuggì di casa, dalla popolare
via dell'Agnolo, in una fuga romantica di amore patrio. Amava l'Ideale
e lo voleva servire con quella passione con cui una fanciulla fedele si
lega al suo primo e unico amore. Non le fu facile, al Centro Profughi di
Milano, realizzare il suo splendido sogno. La giudicavano troppo bambina,
più adatta a fare la educanda in collegio che l'ausiliaria al seguito
delle truppe combattenti. Dovette insistere per parecchi mesi e finalmente
nell'agosto del 1944 riuscì a partire per il corso di Venezia.
Dopo il corso, coronato dall'indimenticabile giuramento,
la troviamo al Distretto Militare di Cuneo, addetta ai servizi ausiliari
femminili.
Pensiamo all'orgasmo che allora regnava nei comandi
militari specialmente nei punti nevralgici come questo. Figure bellissime
di combattenti, puri e nobili di cuore, erano confuse con altre che la
purezza l'avevano sotto la suola delle scarpe e la nobiltà sotto
la cinghia dei calzoni. La vita di un'ausiliaria in questo ambiente non
poteva mancare di difficoltà e di amarezze. Ella però non
perdette mai quella fidente serenità e quel brio festoso che sono
propri del carattere fiorentino e di chi vive in amicizia con Dio, osservando
il proprio dovere alla luce del Vangelo.
La devozione all'Eucarestia e alla Madonna erano
il suo scudo contro le tentazioni e le occasioni del male. Dopo la Comunione
che riceveva possibilmente ogni giorno - come le sue sante concittadine
Caterina dei Ricci e Maria Maddalena dei Pazzi - passava a compiere gli
uffici della massaia e dell'ausiliaria che trasformava in una missione
festosa. Nel cuore le parlava il Signore e negli occhi le rideva la gioia
di servire la Patria. Durante le veglie insonni, nelle fatiche più
dure, nei momenti più difficili canterellava. La musica della sua
anima, della sua Fede, del suo Ideale, si elevava a illuminare l'orizzonte
quando era più buio.
Nell'ultimo giorno del tristissimo aprile, quando
la colonna cuneense - ridotta a pochi ufficiali, a una ventina di soldati
e a nove ausiliarie - si arrese alle brigate partigiane in quel di Biella,
l'oro della fede della nostra fanciulla, purificato dalle scorie politiche,
rifulse del massimo splendore. La piccola di Firenze meritò il martirio
ed entrò in Paradiso col giglio e con la palma. Durante l'interrogatorio,
sette ausiliarie per salvarsi dichiararono di essere delle prostitute che
avevano lasciato la loro casa di tolleranza di Cuneo per seguire i militari.
Marcella Batacchi e Jolanda Spiz, una giovane italiana
all'estero che prestava servizio nella Littorio, non vollero aggrapparsi
a questa sporca àncora di salvezza e si proclamarono ausiliarie.
La bimba che giocava per i labirinti della città vecchia udiva e
ripeteva spesso l'antico detto fiorentino San Giovanni non vuole inganni.
Non bisognava mentire. Non è lecito chiamare bene ciò che
è male. Ella perciò ebbe il santo coraggio morale di confessare.
Se avesse avuto di fronte degli uomini, per questa prova di fierezza e
di rettitudine, avrebbe ottenuto la grazia della vita. Ma aveva di fronte
degli esseri che non erano abituati a stare a guardia dell'onestà
e perciò la grazia l'ebbero le prostitute.
Marcella e Jolanda ebbero come il Santo del non
licet il martirio. Ma prima di cogliere la corona gloriosa, quante umiliazioni
dovettero subire! L’essersi dichiarate ausiliarie era una colpa che bisognava
espiare. - Voi avete offeso noi, vantandovi di essere fasciste e noi offenderemo
voi trattandovi da autentiche prostitute-. Tentarono in tutti i modi di
violarle. Si difesero con le unghie e coi denti. L’agnello divenne leone
per difendere la sua innocenza. - Se ti lasci prendere, non ti facciamo
del male - proposero più volte alla piccola, quegli sciagurati.
Ella non si lasciò prendere: respinse la seduzione e l'oltraggio.
Era come un palazzo di pietra forte che non si può
espugnare. Ce ne sono a Firenze di questi edifici che hanno per stemma
il leone accanto al giglio.
Gli scellerati, imbestialiti dalla resistenza, non
potendola vedere, la condannarono a morte. Allora Marcella, estenuata dalla
lotta, sorrise del sorriso della liberazione. Raccolse, come San Miniato,
la sua testa sanguinante e morì.
Prima di morire espresse il desiderio di avere il sacerdote e
ricevere il suo Gesù. Il sacerdote fu chiamato ma non potè
avvicinarla. Forse non si volle che poi dichiarasse che aveva assistito
una santa. - Mamma Gesù - mormorava Marcella nell'agonia, con gli
occhi fissi a una lontananza misteriosa. Aveva il fervore eucaristico di
Santa Giuliana la quale, non potendo inghiottire sul letto di morte l'ostia
consacrata, se la fece deporre sul petto ansimante, di dove la particola
disparve, assorbita dal cuore. Forse Marcella fu comunicata da una angelo
invisibile. Se la mamma avesse potuto esserle vicino, forse ne avrebbe
visto l'anima uscire dal corpo e salire al cielo: come si narra di S. Reparata,
la dolce patrona che simboleggia la vittoria della più mite innocenza
sulle crudeltà immonde.
Quando il cadavere di Marcella fu riesumato, il
viso era sfigurato e tumefatto, ma il giovane corpo appariva bianco e intatto.
Lo stesso miracolo si verificò per il corpo di Jolanda, la sorella
di fede e di virtù. Erano state sepolte nella stessa fossa, l'una
sopra l'altra. Quella di sotto allargava le braccia, per ricevere e stringere
la sorella martire. Eadem fides et passio vere fecit esse germanas.
Era il 3 maggio 1945. Firenze lontana rideva in
una nuvola di fiori.
La fanciulla, venuta dal popolo minuto, offriva
l'omaggio della sua purezza, il mazzo di fiori bianchi delle spose fiorentine,
alla Beata Vergine. Invece che alla Santissima Annunziata, presso l'Arno,
l'offerta era deposta sui monti, alla Madonna di Oropa.
(Da "FANCIULLI MARTIRI" Capitolo VI "Col gladio, col
giglio e con la palma")
***
"Alla estremità delle due Riviere abita
gente che ha un po' di sangue saraceno nelle vene; ma a Genova la gente
è civile e costumata. Qui non sono accaduti delitti così
efferati".
Molte volte ho sentito ragionare in questo modo
che purtroppo non corrisponde al vero, poichè la mia diletta Genova
non è stata da meno delle altre città del Nord nel macchiarsi
di sangue innocente. La strage degli innocenti è toccata alla famiglia
del colonnello Giovanni Granara che si era alle autorità, consegnato
a perchè i suoi non avessero a patire rappresaglie.
Altro che rappresaglie! La moglie Miranda coi figli,
Luigi di quattordici anni e Ippolito di dieci, furono fatti scomparire.
Il colonnello fu condannato a ventiquattro anni - l'età dei due
figli messi insieme - e quando lo incontravo, per i corridoi gelidi e Lui
di Marassi, mi implorava pregate per la mia famiglia. Non pensava a sè,
ma alla famiglia. Sperava che in qualche posto ci fosse ancora. Questa
speranza schiariva la sua galera, più buia e squallida che mai.
Quando finalmente fu scarcerato, potè occuparsi
della tormentata ricerca e li trovò tutti e tre, in una fossa comune
al cimitero di Sestri, la rossa Sestri. Trovò anche l'assassino
che quando compì il triplice delitto contava appena diciotto anni.
Era una ragazzo anche lui, aveva anche lui la madre, eppure non si impietosì
alle lacrime di Miranda Granara che lo supplicava di risparmiare i figli.
Glieli strappò dal seno; li uccise alla sua presenza e poi con l'arma
che non sbaglia freddò lei alla nuca.
Cosa doveva fare il povero colonnello? Chiedere
giustizia? Oppure perdonare e rifarsi una vita? Non gli rimaneva che raggiungere
i suoi cari nella pace eterna. Ed ha fatto così. La Misericordia
Infinita gli ha fermato il cuore malato, nell'ora più nostalgica
e desiderabile, la sera di tutti i Santi. Così fu accompagnato al
cimitero, a ritrovare i suoi piccini, la mattina del 4 Novembre 1950. Quando
all'Arco della Vittoria celebravano la cerimonia ufficiale, quando squillavano
le trombe e i fanti presentavano le armi, passò questo avanzo di
galera. E gli onori erano per lui. La folla anonima si univa al Corteo
funebre, quasi per domandargli perdono del male che tutti gli avevano fatto,
tutti, eccetto l'assassino.
L’assassino, dopo un mese di carcere, fu rilasciato
perchè per lui non si trovò motivo a procedere.
(Da "FANCIULLI MARTIRI" Capitolo VII "Dall'una
all'altra riviera" - pagg. 81-82)
***
Venite con me o fratelli d'Italia, a pregare sulle
fosse sconosciute! Sotto i nostri piedi non c'è un letamaio verminoso,
ma un cimitero di martiri. Sia che camminiamo nella bassa emiliana, sia
che ci arrampichiamo per i valichi alpini, noi posiamo i piedi e spieghiamo
le ali in un paradiso di martiri.
Incominciamo il pellegrinaggio da Medolla, nella
bassa modenese. Qui viveva la famiglia Greco, educata al sentimento della
religione e all'amore della patria, valori e ideali che nella lotta partigiana
dovevano assolutamente scomparire. Per le continue minacce, i Greco dovettero
trasferirsi a Lodi. Il padre era maresciallo nella caserma Galuppi; la
figlia Eva lo seguì come ausiliaria, addetta al servizio della cucina;
il figlio, Santino di sedici anni, aiutava il babbo in qualche mansione,
propria della sua età. Eva era fiorente di splendida giovinezza;
il pericolo la insidiava, ma ella lo fuggiva accorta, sempre dedita al
lavoro e illuminata dalla fede che trasformava in nobiltà la sua
umile fatica. La bella virtù, che il mondo insidia e onora, stava
vigile sotto il grigioverde della divisa, stava nascosta sotto il colore
scialbo del servizio e sporco della cucina. Ma quando la si volle offendere,
la bella virtù sfolgorò più dell'arma che brandiva
il libidinoso carnefice. L’ausiliaria, con l'onore militare, aveva un altro
onore non meno sacro da difendere. Ed Eva lo difese, ascendendo dall'eroismo
al martirio.
Un giorno di maggio, i sicari di Medolla andarono
a Lodi a cercare i Greco; prelevarono il babbo Angelo coi figli Eva e Santino.
Prima di cadere sotto i colpi di mitra gli infelici dovettero subire supplizi
inenarrabili. Alla ragazza si recò oltraggio alla presenza del padre;
ella si difese con le scarpe, finchè si abbattè sfinita.
Si ignora il luogo della sepoltura. Osanna li cercò ovunque, finchè
le ordinarono di ritirarsi in casa, altrimenti avrebbe fatto anche lei
la stessa fine. La mamma stette tre anni senza uscire perchè le
sembrava, se fosse uscita, di porre i piedi sopra i loro cadaveri. O sopra
altri cadaveri.
Vicino c'è Concordia, dove scomparve la corriera
fantasma. In quale campo saranno state sepolte le vittime? Dove sarà
finito il gruppo di giovani del Battaglione Oderzo che viaggiava col salvacondotto?
Ecco perchè in quella terra la gente vive con un incubo nel cuore:
passeggiare sui morti, arare campi e cadaveri umani. Ecco, perchè
in quella terra muoiono senza sacramenti, nemici ostinati di Dio e della
sua misericordia.
Dalla pianura modenese, portiamoci alle prime dolci
colline, abitate da gente semplice e laboriosa. La guerra purtroppo ha
avvelenato gli spiriti, anche i più semplici, la guerra fratricida
ha infestato anche queste ridenti colline, ondulate di grano e di vigne.
A Castelnuovo Rangone uccisero i Gozzi, padre e figlia, nel modo più
barbaro. Ines era una giovane di rara bellezza. Benchè frequentasse
la università si era mantenuta bambina. Aveva due occhi meravigliosi
che le illuminavano il viso ed erano l'espressione della grazia interiore.
La sera del 19 gennaio 1944, mentre le campane della nuova chiesa bella
come un duomo, suonavano l'ora di notte, un gruppo di partigiani circondò
all'improvviso la casetta tra i pini. Il babbo e la figlia furono prelevati
e processati nella stessa notte in una casa di montagna. I giudici e i
testimoni, alcuni compagni d'infanzia e di scuola della ragazza, la condannarono
a morte, perchè figlia di un fascista e fidanzata di un ufficiale
di Guardia. Prima di eseguire la sentenza, quelle canaglie profanarono
il corpo vergine. Un malvagio, che non volle rinunciare al suo turno e
al suo diritto di preda, l'ebbe svenuta.
Sembrava di essere non in una casa di campagna,
ma in un altro inferno. Padre e figlia furono trascinati semivivi sull'orlo
di un pozzo nero e gettati in quel luogo orribile. Mentre dal profondo
salivano lamenti, che avrebbero spezzato il cuore alle tigri, gli assassini
ballavano e sghignazzavano intorno. Che prodezza avevano compiuto! Il bollettino
GAP segnalava l'azione come tale.
Episodi di questa orrenda bestialità accaddero
un po dovunque. Da una parte il furore e dall'altra la virtù; da
una parte la bestia e dall'altra la timida fanciulla che arrossò
di sangue il suo giglio.
Ad Introzzo, in una notte fredda di novembre del
'44, persone amiche bussarono alla casa Buzzella che aveva due militari
nella Repubblica Sociale. Invece di persone amiche, che domandavano ospitalità,
c'erano dei partigiani che si gettarono sulle due povere donne rimaste
in casa: la mamma quarantenne e la figlia Vanda sedicenne. Le due donne,
dopo grida di terrore, furono immobilizzate e denudate; violentata la mamma
e stuprata la figlia; trascinate svenute all'altezza di un ponticello e
finite a colpi di mitra. Durante il giorno era caduta la neve. La strada,
di casa Buzzella al ponte della morte, era segnata da una scia di sangue.
Il figlio e fratello delle vittime, che cercò di difenderne almeno
la memoria, è ancora in un ergastolo che sconta la pena.
Quanti altri figli a cui furono scannati i genitori;
quanti martiri a cui furono straziate le mogli e le giovani figlie, sono
tuttora in galera! La scia di sangue è interminabile.
Dalla valanga mostruosa furono travolte ad Andorno
Micca quattro donne: la madre Caterina Tebaldi con le figlie Angiolina
di anni venti, Mariuccia di anni diciotto e Carmela di sedici anni. Erano
tre rose e tre viole, splendide e modeste; il loro supplizio fu degno delle
martiri cristiane. A Carmela tagliarono, come alla Vergine Agata di Catania,
i piccoli seni.
Altre tre sorelle giovanissime furono uccise davanti
al cimitero di Buriasco: le sorelle Sito di Scalenghe. Erano belle e buone;
nessuno aveva mai mormorato sulla loro condotta, ma le idee politiche che
professavano non andavano a genio a certi giovinastri, i quali le prelevarono
di notte tempo e le trattarono in modo ignominioso. Una delle sorelle,
piissima, che conosceva la vita delle Vergini Martiri, con parole povere
ripeteva quello che Santa Lucia disse al prefetto di Siracusa: Si invitam
iusseris violari, castitas mihi duplicabitur ad coronam. In faccia ai morti,
alla presenza degli spiriti dei padri, dopo averle violentate a sazietà,
le crivellarono di colpi di mitra. Eravamo nell'imminenza di Natale: i
cuori cristiani si preparavano a ricevere Iddio fatto uomo, anzi Bambino,
per redimere l'umanità.
Anche le Reverberi di Pontedecimo erano tre sorelle
e la loro fine fu quanto mai straziante. Veramente solo due vennero assassinate,
ma la terza non tardò a seguirle nella tomba. Non si può
vivere col ricordo di certe tragedie. La fossa è l'unico posto dove
si può riposare.
Eppure molti non riposano neanche nella fossa, perchè
non hanno un angolo di terra consacrata e un pezzo di croce su ci sia scritto:
qui riposano.
Ho accennato ad alcuni episodi di madri martirizzate
con le proprie figliole. Sono assai più numerosi gli episodi di
padri finiti coi loro ragazzi di quattordici, di quindici anni. Le figliole
caddero con la madre che a loro aveva insegnato la virtù dell'onestà;
caddero per la difesa di essa, aggiungendo alla palma del martirio la corona
dei gigli, che è il simbolo della innocenza vittoriosa sulle efferatezza
dei sensuali. I figli caddero col padre che a loro aveva insegnato l'amor
di Patria, caddero per la difesa di essa, aggiungendo alla gloria del martirio
la corona di alloro che è simbolo dell'onore militare.
L’ardito quindicenne Ido Cavazzola seguiva il babbo
che comandava una pattuglia mobile della Brigata di Verona, distaccata
sulle strade della Marca Trevigiana a protezione delle squadre operaie.
Ma, a Casale sui Súe, la pattuglia Cavazzola venne sopraffatta da
una banda partigiana. La resistenza eroica terminò in una stalla
dove fu improvvisato il tribunale di guerra. Il piccolo Ivo venne interrogato
per primo. Egli fissò negli occhi del babbo e non si smentì.
Non ebbe un attimo di smarrimento: sembrava che le risposte gli fossero
ispirate dall'alto, come Gesù ha promesso ai suoi testimoni. La
fierezza di Ivo fu coronata dal colpo alla nuca, proprio come per i Martiri
Cristiani veniva coronata dal colpo di scure che troncava il capo dignitoso.
Tre giorni dopo il cadavere del figlio fu estratto, con quello del padre,
dalle acque del Sile. Grondavano del pianto della Patria, straziata dal
fratricidio.
Chi ha visto l'espressione spaventosa degli annegati,
che ha visto come è ridotto un cadavere gonfio e annerito dall'acqua,
reso straccio macerato, può giudicare. Questa fu la fine ignominiosa
e ripugnante dei combattenti dell'onore e della fedeltà disperata.
Invece i cadaveri del padre e del figlio Ubertis
non furono più ricuperati dal Canale Cavour. Ubaldo non aveva ancora
sedici anni. Il babbo gli aveva insegnato ad amare l'Italia, ed egli fu
fedele a questo insegnamento: al babbo e all'Italia. Da Trino Vercellese
a Livorno Ferraris li trascinarono in un supplizio senza nome. Alle percosse
degli sgherri si aggiungevano, lungo la strada, gli sputi e le pedate della
popolazione. C'era un gusto matto a tirare calci e schiaffi a "quel
porco di fascista", anche se quel porco era un bambino che pochi giorni
prima aveva ricevuto la Prima Comunione. Bisognava sterminarli tutti, compresi
i figli più piccini, per finire la razza. Ubaldo si strinse a suo
padre, e così abbracciati scomparvero nel canale. Non riapparvero
più. Ora che sono stati affogati i fascisti, apparirà la
razza degli italiani onesti?
Anche il figlio del maresciallo Del Bo, fucilato
col babbo in terra pavese, aveva quindici anni. La mamma, diventata pazza
dal dolore, è finita in manicomio, mentre il responsabile del delitto
siede al Parlamento. Questo succede nell'Italia democratica dove il popolo
si sceglie a rappresentanti i massacratori cui affida il mandato di persecuzione.
Udite ciò che accadde fra Stresa Borromeo
e Arona, dove furono giustiziati i Velati, padre e figlio, i quali avevano
beneficato la popolazione. Non c'era persona che si fosse rivolta a loro
inutilmente. Tutti avevano ricevuto qualche favore e tutti dimostravano
di amarli nei tempi buoni. Eppure, quando i due disgraziati furono presentati
alla folla dal balcone del municipio di Stresa, e successivamente dal balcone
della caserma dei carabinieri di Arona, tutti gridarono al crucifige. I
Velati grondavano sangue, come poveri cristi. Erano stati trascinati da
un tribunale all’altro, sotto scariche di bastonate di bastonate non solo
sulle spalle ma anche sulla testa. Il giovinetto Giancarlo alzava le mani
in segno di rassegnazione e di implorazione. A nulla valse.
Abbiamo sentito parlare spesse volte dell'eccidio
di Schio. Tra le vittime merita una menzione speciale la piccola Giselda
Rinacchia, arruolatasi volontaria per seguire il fratello Carlo, sottotenente
degli alpini. Anche assistendo altri commilitoni, lo seguiva e aiutava
da vicino, poichè essi portavano la stessa divisa del fratello e
nel cuore lo stesso entusiasmo. Giselda e Carlo morirono tutti e due trucidati,
l'uno lontano dall'altra, ma tanto vicini; fiamme di un solo rogo, candelabri
di un solo altare. Carlo, morendo, credeva che ai genitori rimanesse la
consolazione di Giselda, sempre così affettuosa; Giselda, morendo,
credeva che rimanesse loro Carlo, sicuro sostegno per la vecchiaia. Ai
genitori invece non rimase nessuno, ed essi non ressero alla duplice sventura.
Questo è il quadro d'Italia: famiglie distrutte
o disperse; giovani liberati dai penitenziari per essere ricoverati nei
sanatori; madri ritirate in case di cura per malattie mentali e padri,
uccisi senza sacramenti, di cui non si riesce a rintracciare il cadavere.
Una volta contavo innumerevoli amici sparsi per la penisola, ma ora, se
li voglio rivedere, invece di andare a casa loro, devo andare in qualche
cimitero.
Avevo una famiglia amica nella Repubblica di San
Marino: credevo che almeno loro, i Fattori, non fossero morti. Dopo una
preghiera propiziatrice alla Madonna di Loreto, andai a San Marino per
riabbracciare questa famiglia di cari amici. Padre e figlio, per non vedere
gli angloamericani nè come liberatori nè come turisti, se
ne andarono a combattere per l'Italia. Non videro gli alleati, perchè
gli italiani li uccisero. - Se volete trovarli, andate a Sondrio - mi disse
un vigile educato.-Sono stati assassinati lassù, nell'ultima ridotta.
I Fattori erano dei galantuomini.
E Manzoni e Pallotti non erano galantuomini? Quest'ultimo,
di cui conoscevo la famiglia poichè ero stato più volte loro
ospite, credevo poterlo riabbracciare quando, uscito dal carcere, conobbi
le tappe dell'esilio in patria. Dopo l'esperienza della galera buia, il
cuore si effondeva con maggior tenerezza nell'abbraccio di un amico fedele.
Invece anche lui era stato eliminato nell'inverno dell'odio e della rapina,
poichè il movente del furto si accompagnava quasi sempre a quello
politico. Era la sera del 9 gennaio '45, vicino a mezzanotte, quando una
squadra armatissima compì il macello in una casa modenese di campagna.
Abbracciata al veterinario Pallotti, che era un professionista stimato,
fu uccisa la moglie coi due figli Luciano di sedici anni e Maria Luisa
di tredici. La ragazza portava al collo una collanina d'oro della Madonna.
Mentre gliela toglievano rinvenne, e allora le spararono il colpo di grazia.
La piccola, in un tentativo supremo, aveva cercato di difendere quel simbolo
della sua fede innocente, serrando le mani sulla catenina. Ricordo un episodio
della guerra d'Albania, nel paese della vita cattiva. Sul telefonista che
moriva, un fante della stessa compagnia si chinò per compiere un
gesto da miserabile. Invece di aiutarlo, gli strappò dal collo la
catenina d'oro. - Vigliacco - gli sussurrò l'agonizzante - potevi
aspettare che fossi morto. Queste parole penetrarono nel cuore del fante
sciacallo, destando in lui amaro pentimento. Venne a confessarsi, non curante
delle raffiche che battevano un terreno scoperto che doveva attraversare
e, tra le lacrime, restituì la collanina. Qui nessuno si pentì.
Allora, in Italia, nel modenese come nel vercellese,
come altrove, chi non era assassino, era vile. Udite ciò che accadde
alla piccola Maria, ancora viva dopo la strage e il colpo di grazia. Accoccolata
vicino alla madre, con le braccine distese sul suo cadavere, implorò
aiuto per tutta la notte, con un filo di voce sempre più flebile.
Le pareva impossibile che la mamma non si alzasse ad aiutarla. Qualcuno
poteva farlo. Bastava che muovesse pochi passi, che scendesse due scalini
e l'avrebbe salvata. Ma non lo fece: dalla paura. Sentì per ore
ed ore, quella voce agonizzante martellargli nel cuore, ma il cuore era
di sasso. Gli assassini erano insensibili per un motivo, i vili per un
altro: tutti insensibili al pianto e alla strage degli innocenti. Quando
il mattino dopo, questo Nicodemo diurno mandò a chiamare il medico,
era troppo tardi. Il medico arrivò che la bimba era appena spirata,
dopo aver implorato invano per tutta la notte. E le notti di gennaio sono
lunghe, oltre che gelide.
La Corte della mistica Perugia, che ha giudicato
gli assassini, li ha rimessi in libertà. Questa è la legge
che vige in Italia. Questa è la maledizione che incombe sull'Italia.
(Da "FANCIULLI MARTIRI" Capitolo XV "Scia di sangue
interminabile" - pagg. 179-188)
Antologia di pezzi tratti da vari libri scritti da Frà Ginepro
e pubblicati nel Capitolo "Il Martirologio" del volume FRA'
GINEPRO, IL FRANCESCANO, LO SCRITTORE, IL CAPPELLANO. NovAntico
Editrice